Difendiamo la lingua italiana

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di V. Guardino

Nel giro degli ultimi decenni, è sempre più evidente l’entrata di terminologie anglofone all’interno della nostra lingua. La ragione di questo processo sta nel fatto che l’inglese della globalizzazione viene ovunque imposto come la conditio sine qua non per sopravvivere nel nuovo ordine del XXI secolo. L’economia di mercato, la scienza sanitaria, la tecnocrazia politica, la velocità dei media di massa e la tecnologia digitale sono i fattori che più di tutti stanno trainando la globalizzazione iniziata a partire gli anni ’90. Oggi la lingua anglofona viene adoperata dal potere, il quale, attraverso un linguaggio volutamente oscuro e per lo più incomprensibile, non vuole farsi intendere dalle masse popolari e al tempo stesso vuol far passare tali terminologie come di per sé asettiche, naturali e quindi indiscutibilmente giuste. Ma c’è una ragione ancora più perversa in tutto ciò: il disegno di distruzione della nostra identità. A tale scopo, la lingua anglofona viene imposta dai padroni del mondo come amaro destino del processo di globalizzazione e procede di pari passo con il tragico smantellamento degli Stati nazionali i quali vengono, di fatto, rimpiazzati da una realtà globale, ossia da un potere non territorializzato che cerca d’imporre un unico modo di vivere, di pensare, di parlare. La vulgata mediatica dichiara che il fine di tale imposizione sarebbe quello di favorire la comunicazione e lo scambio culturale; tuttavia, il potere del mercato globale finge di voler valorizzare le differenze linguistiche e l’inclusione multiculturale, ma in realtà esso mira ad annullare, una per una, le identità dei popoli di modo che questi ultimi si riconfigurino come entità astratte, uniformate al grigiore del mondialismo. Ma la nostra lingua, espressione massima della cultura e della civiltà italiana che affonda le proprie radici nello splendore della Roma dei Cesari e dei Papi, è un patrimonio che va difeso ad ogni costo. Si consideri, inoltre, che la lingua che ci impone la realtà odierna non è l’inglese di Shakespeare o di Dickens, ma è quello che viene definito con ragione “globish”, cioè una sorta di pseudo-inglese tecnologico semplificato, perfetto per la decadenza culturale del mondo interconnesso, funzionale a trasmettere veloci scambi di informazioni tra uomini-automi privi di identità culturale e linguistica.Per tutte queste ragioni occorre in ogni contesto valorizzare la lingua italiana, tradurre il più possibile quantitativo di termini anglofoni, resistendo con spirito di abnegazione di fronte al frequentissimo abbandono della nostra lingua nazionale – orgoglio supremo d’Italia – la quale fu adoperata da autori del calibro di Dante e Manzoni. La patria italiana è la mamma nostra, senza la quale non possiamo neppur concepire di vivere. Lo è da sempre, lo è da prima che noi nascessimo: è quel legame misterioso che ci unisce e ci rende uomini veri, non atomi consumatori. Come può un popolo come l’italiano, e in particolar modo la generazione dei più giovani, guardare verso l’avvenire se viene meno il sentimento delle proprie radici? Può forse una pianta fiorire se viene sradicata? In relazione a ciò, uno dei compiti principali della scuola e degli atenei universitari – prima ancora di promuovere l’Erasmus o i corsi in giro per il mondo per apprendere l’inglese – dovrebbe essere quello di stimolare questo sentimento di appartenenza ad una storia, ad una cultura, ad una lingua e ad una tradizione comune. L’Italia, che ha al suo interno l’80% del patrimonio culturale mondiale, si risolleverà e sarà di nuovo nazione guida nel mondo. Esorto perciò i miei lettori a reagire nei confronti dell’omologazione linguistica al fine di rivalorizzare la bellezza della nostra italianità. Sempre valido, a tal proposito, è il comandamento che a suo tempo pronunciò Michele Bianchi, quadrumviro della marcia su Roma: “QUANDO ALLA PATRIA SI È DATO TUTTO, NON SI È ANCORA DATO ABBASTANZA”.

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